SILENCE

Silence

Silence Scorsese

XVII secolo: due giovani gesuiti portoghesi vanno a cercare il loro padre spirituale che ha abbandonato la fede, in un Giappone che perseguita ferocemente i cristiani

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La storia prende le mosse nel 1633, con le crude immagini delle torture di alcuni uomini che non vogliono rinnegare la propria fede e di un sacerdote cattolico (Liam Neeson) che assiste attonito. Pochi anni dopo, due gesuiti portoghesi, padre Sebastian Rodrigues e padre Francisco Garupe, ottengono il permesso di un loro superiore per andare in Giappone a cercare padre Ferreira («dobbiamo salvare la sua anima»), loro mentore e guida spirituale che ha abiurato il cristianesimo e si è sposato, vivendo ormai come un giapponese. Nel grande paese orientale, dopo una lunga stagione di coesistenza, da qualche tempo è in atto una feroce persecuzione contro i cristiani e i due giovani gesuiti – diversissimi: Garupe (l’ottimo Adam Driver) è impetuoso e insicuro, Rodrigues (l’intenso Andrew Garfield) più calmo e certo – si ritrovano ad assistere di nascosto, tra mille rischi, alcuni credenti: persone umilissime, che conoscono anche poco della religione che professano ma che vivono come i primi cristiani nelle catacombe; spesso disposti a tutto, per quella fede. Perché chi cade nelle mani di governatori e inquisitori locali, deve decidere se salvare la sua vita e quella dei propri cari – calpestando immagini sacre anche solo frettolosamente come un’ipocrita formalità – o andare verso il martirio; spesso crudele, per dare un chiaro monito a chi sopravvive. È la scelta che dovranno costantemente fare anche i due padri, in continuo pericolo. A volte confortati dalla fede di queste persone poverissime, e con il sentimento di “utilità”, di chi finalmente porta i sacramenti a gente forzatamente lontana da essi. A volte smarriti di fronte alle sofferenze proprie e soprattutto altrui, e tormentati da umanissimi dubbi: dov’è Dio? Perché non fa sentire la sua voce? Perché queste persone devono soffrire così tanto per un peso che Dio ha scelto per loro? In particolare per padre Rodrigues, che si deve separare dal giovane confratello, il “silenzio” di Dio è uno scandalo che rischia di portarlo alla disperazione. Come pure l’esempio di martiri magari inconsapevoli, ma più semplici e certi di lui (la scena dell’uomo che muore in croce dopo aver invocato Cristo e cantato preghiere è da brividi). E mentre il progetto di chi li perseguita – il governatore Inoue, minaccioso e insinuante – è sempre più chiaro: far crollare i sacerdoti, punto di riferimento di quella fede popolare. Se crollano loro, il Cristianesimo può essere spazzato via. A questa prova dovrà rispondere anche padre Rodrigues.

Progetto fortemente voluto da Martin Scorsese, che gli stava dietro da vent’anni, Silence non solo è uno dei film più importanti della sua ricchissima filmografia, ma riassume in una storia impegnativa per lo spettatore e allo stesso tempo potente – supportata da una grandiosa “cinematografia”: immagini (con una fotografia spesso cupa, tra ambientazioni notturne e cieli nuvolosi), dialoghi essenziali e profondi, musiche, le scenografie e i costumi di Dante Ferretti, che ha ricostruito interi villaggi – tutte le ansie religiose del regista americano, formatosi in una famiglia cattolica (di origini italiane) e in gioventù seminarista che pensava di diventare un sacerdote. Scorsese fu fortemente colpito quasi trent’anni fa dal romanzo di Shisaku Endo, scrittore giapponese cristiano paragonato a Graham Greene per l’attenzione alla spiritualità e alla fede, e in particolare dal tema della debolezza del cristiano e dalla lotta tra coraggio e generosità (spesso i gesuiti dovevano abiurare non per salvare la loro pelle, ma quella di altri poveri convertiti) da una parte e paura e desiderio di sopravvivenza dall’altra, tra volontà quasi superba di martirio e preoccupazione per le responsabilità sulle altrui vite.

Sia il romanzo che, ora, il film, sono stati contestati da alcuni cattolici statunitensi, quasi Silence fosse “un’apologia della sconfitta” e dell’abiura (accusa che nessun critico laico ha fatto finora al film…). Una banalizzazione di un’opera complessa e segnata da un forte afflato religioso, certo tormentato ma sincero e vivo: si sente in controluce – peraltro ammessa esplicitamente da Scorsese: per esempio nella bellissima intervista concessa a padre Spadaro su La civiltà cattolica – l’urgenza di un uomo che ha vissuto in modo sofferto e magari non lineare ma intenso la sua tradizione religiosa, sicuramente riscoperta e riaffermata con forza in età matura (anche se mai rinnegata). «Sono stupito di aver ricevuto la grazia di essere in grado di fare il film adesso, a questo punto della mia vita» ha confessato Scorsese a padre Spadaro, a sottolineare come nel suo percorso umano il film – il cui progetto gli ha fatto compagnia a lungo, appunto almeno vent’anni – sia arrivato al momento giusto. E senza svelar nulla, ne si ricava l’impressione di un’ammissione commossa: la centralità nella vita della Grazia e la forza di quel Dio misericordioso, intuito da bambino e poi riaffermato – in un momento di crisi – vedendo  Diario di un curato di campagna di Robert Bresson, che perdona ogni limite umano. Significativa la figura di Kichijiro, l’uomo che accompagna a lungo il percorso di padre Rodrigues: un uomo che, abiurando per salvare la propria vita ha visto uccidere tutti i suoi cari (che invece non tradirono la loro fede); un peccatore orribile, che a più riprese chiede al padre di confessarsi e continuamente cade e tradisce di nuovo, causando sofferenze al sacerdote e ad altri cristiani. Cristo è venuto anche per quell’uomo, così meschino e peccatore, pensa a un certo punto il giovane gesuita. E se anche penserà spesso di essersi sbagliato (su di lui e anche sulla possibilità stessa che il Cristianesimo possa attecchire in quelle terre così culturalmente lontane), dovrà sempre ammettere che la misura del Salvatore è ben diversa dalla sua.

Altro che esaltazione: nel film chi abiura e tradisce ha lo sguardo triste e spento, attraversato dal senso di colpa (l’ex padre Ferreira, quando incontrerà Rodrigues, mostrerà alterigia verbale ma anche l’incapacità di guardarlo negli occhi). In effetti questa vicenda storica viene raccontata attraverso cadute e tradimenti (ma fa sussultare Ferreira, che quasi sopra pensiero nominerà ancora “nostro Signore”), non la gloria del martirio. Ma se alla fine, in apparenza, la sconfitta di chi doveva testimoniare il Cristianesimo sembra totale, l’ultima parola non cade sull’errore, ma sul perdono di Dio, misterioso e travolgente, capace di riaprire e consegnare nell’eternità una partita che sembrava chiusa per sempre. Una Misericordia che trionfa, nel silenzio e nel nascondimento, ma vince nel luogo più inaccessibile al Potere e però dove conta di più come racconta l’ultima, sorprendente e commovente immagine. Perché i persecutori possono conquistare tutto, ma non il cuore: insondabile nella sua vertiginosa possibilità di dire un ultimo sì, in qualche modo, al suo Signore. Che ha parlato, sempre: «Nel silenzio ho sentito la tua voce».

Antonio Autieri